Gianfranco Santi, un fotografo cowboy al “Sada” (3a p.)

Dal 1983 al 1986 Gianfranco Santi restò in Umbria, facendo lavoretti per amici e parenti e coltivando il sogno di poter entrare un giorno nella proprietà di un ristorante, gestito da un lontano cugino. Ma il richiamo della vita famigliare in Brianza e del lavoro fotografico, finì per avere la meglio e, così, l’irrefrenabile reporter ritornò felicemente nella città d’adozione, aprendo uno studio con il collega Fabrizio Redaelli, ora affermato collaboratore de Il Giorno, il Corriere della Sera, ANSA e del ‘Cittadino’. La sede del laboratorio fu posta, prima, dal 1988 al 1994, in via Volturno, poi, dal 1995 al 2001, in via San Gottardo, ad un centinaio di metri dalla sua vecchia abitazione.

 

La tragica fine dello stravagante fotografo, amico del Monza

 

Gianfranco amava la montagna, come ricorda spesso il giornalista Sergio Gianni, attuale collaboratore de Il Giorno e del ‘Cittadino’, suo compagno di escursioni, con le rispettive famiglie, in Val Pusteria, ma soprattutto il mare, che raggiungeva appena possibile per trascorrere spensierati periodi di vacanza. Un dannato giorno di luglio del 2001, recandosi, con la moglie, in spiaggia di prima mattina, come prediligeva fare, il sessantunenne fotografo, in autostrada, al volante della sua Opel Calibra (le Mehari le usava solo in Brianza, non arrischiandosi di affrontare, alla loro guida, la trasferta in Centro Italia), forse per un colpo di sonno, forse per un errore di guida suo o di un automobilista nelle vicinanze, uscì di strada a Porto San Giorgio. L’urto contro il guard rail fu violentissimo ed un pezzo dell’onda d’acciaio finì in modo devastante dentro l’abitacolo della vettura, procurando gravissimi danni fisici a lui ed alla moglie. L’uomo al volante apparve subito il più grave dei due sventurati, tanto da essere trasportato via dall’ambulanza in condizioni disperate. Gianfranco fu ricoverato d’urgenza all’ospedale di Ancona e i medici, per salvargli momentaneamente la vita, dovettero procedere con l’amputazione di una gamba. Dopo poco tempo, purtroppo, anche l’altro arto inferiore mostrò grossi problemi, finendo in cancrena e costringendo i dottori del Centro di riabilitazione di Porto Potenza Piceno ad un disperato intervento chirurgico. Durante l’operazione però, il cuore dello sfortunato paziente cessò improvvisamente di battere. Ma già al momento del suo arrivo nel nosocomio marchigiano il malcapitato fotografo, minacciato anche da problemi di embolia, era entrato in uno stato comatoso. Il povero Santi, in una fredda sala operatoria, lontano da Monza, città che lui tanto aveva amato e che gli aveva dato una certa notorietà, si trovò così in una triste giornata d’inizio ottobre 2001, a mettere fine alla sua avventurosa vita. Alla moglie, ristabilitasi a fatica dopo alcuni delicati interventi e parecchie cure, e ai figli, ma anche ai numerosi amici che con le sue umani doti era stato capace di procurarsi, il ‘fotografo cowboy’ lasciò tanti bellissimi ricordi di una esistenza condotta alla giornata, con infiniti sacrifici, qualche sofferenza, ma sempre con sfrontatezza, positività e con il sorriso sulle labbra.

 

Lo stratagemma di Ambrogio Caprotti e Gigi Sanseverino sui calci di rigore

 

Allo stadio, lo scanzonato Gianfranco, con i classici Ray-Ban a lenti colorate modello ‘Aviator’ a coprire gli occhi, amava posizionarsi sempre ai lati della porta occupata dal portiere avversario e, in caso di assegnazione di un calcio di rigore a favore del Monza, dietro la rete, il più vicino possibile allo storico fotografo brianzolo Ambrogio Caprotti. La spiegazione di quest’ultima scelta era semplice e risaputa nell’ambiente. L’esperto collega di Santi, particolarmente legato ai giocatori biancorossi, aveva infatti concordato da tempo, con l’amico attaccante Sanseverino che, in caso di un eventuale penalty decretato a vantaggio della formazione locale, lui, rigorista della squadra, avrebbe immancabilmente calciato la sfera dagli undici metri mirando la sua figura. Il buon Ambrogio, per l’occasione, si sarebbe quindidi certo appostato, sornione, nella posizione migliore per fermare il pallone con il teleobiettivo. Caprotti, essendo in ogni partita, per l’ora e mezzo di gioco e per chiare esigenze di lavoro, piazzato molto vicino all’estremo difensore avversario, sosteneva sempre, a spada tratta, di essere anche uno dei pochi a poterne studiare bene le mosse. In particolare poteva scoprire, in modo dettagliato, i tempi del portiere nel tuffarsi ed eventuali suoi difetti nel piazzamento. Quindi era indubbiamente consapevole, pure, del lato debole, dove potesse essere più facilmente vulnerabile dal dischetto. Ebbene, prima del fischio dell’arbitro, il furbo reporter, affiancato, come un’ombra da Santi, si metteva inevitabilmente accovacciato alle spalle del Numero Uno ‘nemico’, nella direzione dove, stando agli accordi con il fedele Sanseverino, il pallone sarebbe dovuto terminare in rete. Così facendo, secondo lui, si sarebbe favorita l’esecuzione del tiro da parte dell’attaccante biancorosso e reso perfetto lo scatto fotografico. Sembra che molte volte, lo stratagemma abbia funzionato, per la gioia del rigorista e dei due abili reporter di casa.

 

(Fine terza parte)

 

Enzo Mauri